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“Dantedì” 2022

25 marzo, Dantedì, 2022

Inaugurazione in Aula Magna “Lanza” ore 9:00 del murales “L’amore che move il sole e l’altre stelle” realizzato dagli allievi con il pittore “Mono” Carrasco a conclusione dell’anno dei festeggiamenti per i settecento anni della morte del Poeta

UNA CONVERSIONE ECOLOGICA (ED EGOLOGICA) FONDAMENTALE E NECESSARIA.

ma già volgeva il mio disio e ‘l velle
sì come rota ch’igualmente è mossa (141-144)


l’amor che move il sole e l’altre stelle.

“(La ragionevole comprensione venne meno): ma a quel punto, quell’Amore che proviene dal soprannaturale, che muove il sole e tutte le stelle (cioè tutto l’universo che vedevamo), muoveva ormai la mia volontà e il mio desiderio, al modo in cui muove il cielo nella sua eterna rivoluzione.”

Un verso, un solo verso, può corrispondere, sul piano del linguaggio della poesia, a quello che nel campo della prosa Leopardi chiamava “pensiero isolato”. Così, accade anche che alcuni versi isolati, pur sottratti alla loro organica appartenenza, finiscano col vivere di una vita propria. E questo è isolato davvero, dolo la terzina 142-143-144, il solo v. 145)

Dante è giunto al termine del suo viaggio: il Paradiso si rivela essere un luogo luminoso, pacifico in cui l’amore illumina ogni cosa. Impossibile comprendere la Volontà Divina e il disegno, che pure il poeta ha occasione di vedere al culmine del suo viaggio. Ma tutto ciò che è divino per definizione non è umano e l’anima di Dante trova beatitudine e armonia nella perfezione divina, rinunciando alla comprensione di qualcosa ben oltre i limiti della sua ragione.

è consapevole che l’Amore, motore di tutte le cose, sta ormai muovendo anche il suo desiderio e la sua volontà. Si tratta di un’esperienza di immedesimazione totale con la Verità, con la Bellezza, con la consapevolezza che il divino è Amore e l’Amore è la chiave di tutto il mistero della vita e dell’universo.

Dante è parte anch’esso del tutto, come i pianeti e le stelle, come la luce del sole e come le meraviglie tutte del creato. Il viaggio è allora davvero concluso. 

Deve avvenire una trasformazione completa che può avvenire non se ci si muove fisicamente ma se ci si lascia com-muovere, se ci com-prende

E serve armonia, nel movimento, come quello astronomico, musicale / ritmico, divino dei pianeti, quello astrale, un movimento che la scia senza parole nel descriverlo che fa perdere la memoria se lo hai visto o fa impazzire se si cerca di capirlo

Dante impiega il motivo della voluntas, caratteristico della spiritualità francescana, preparato dalla meditazione dell’Itinerarium di Bonaventura con reminiscenze di Iacopone da Todi (lo iubelo de core che fai cantare d’amore), sintesi singolare fra un aristotelismo che si fa strumento di pensiero e la tensione verso l’alto non di natura cognitiva ma spirituale e forte di una solida base teoretica.

Già in almeno altri due luoghi del Paradiso Amore figura come forza motrice dei cieli. Anche in questi troviamo riferimento alla caratteristica teoria aristotelica, letta secondo l’interpretazione tradizionale, quella secondo la quale in effetti il motore immobile aristotelico è “amato” dal cielo che lui stesso muove.

Nella Commedia (102.000 parole scarse) la parola stella compare: 55 volte, astro 1, pianeta 5

Alle stelle Dante aveva mirato per tre cantiche: alla fine dell’Inferno si deve ripulire delle lordure del budello naturale che lo porta a fuoriuscire alla luce (ed è notte: solo le stelle lo trapungono); “E quindi uscimmo a riveder le stelle”. È l’ultimo endecasillabo dell’Inferno. Nel Purgatorio Dante contempla il cielo notturno dell’altro emisfero (mai essere umano vi aveva messo piede) ed è un ciel stellato meraviglioso, una sorta di presagio del nuovo cammino di luce e di speranza dopo le tenebre precedenti. E infatti quel cielo si mostra, ci dice Dante, “come pura felicità dello sguardo”. “Puro e disposto a salire alle stelle”, ultimo verso del Purgatorio. Dopo aver scalato la montagna ed essersi immerso nei fiumi per dimenticare il concetto del peccato e ravvivare in sé la memoria del bene compiuto, il pensiero di Dante è oramai uno solo: rinnovare l’anima, non lasciarvi più altra orma che quella del bene e aprirle così la via del cielo.

Le stelle sono la meta di Dante e per questo motivo ricorrono nel verso finale di ogni cantica della Divina Commedia: una rispondenza che non è pura simmetria, ma espressione del motivo ideale che corre attraverso il poema e lo innalza costantemente verso la meta. E poi Paradiso 33. Con questo verso, Dante racchiude il significato dell’intera opera, di Dio, dell’universo, del fatto che l’Amore è il meccanismo del mondo e di tutta la vita.

E finalmente ne può capire ora il senso, vedendone il movimento e il meccanismo perfetto: un crescendo quindi tra le tre cantiche, un’aspirazione, un volere, un desiderare. Già, perché Dante vede ora finalmente il vero Desiderio

Aveva cercato di farcela da solo, ma per fortuna poi aveva seguito il Maestro, Virgilio: “allor si mosse e io gli tenni dietro”. All’inizio in una situazione di difficoltà: bloccato dalle tre fiere non riesce ad uscire dalla selva oscura in cui è finito.

Aveva cercato di agire solo con la guida della stella che infonde talento alla nascita nel bambino: il suo de-stino.

È quello come dice a Dante il maestro Brunetto Latini, durante il loro incontro nell’Inferno: “Se tu segui tua stella non puoi fallire a glorioso porto”. Per il suo maestro seguire la propria stella significa assecondare esclusivamente la propria indole, il proprio talento.

Aveva avuto desiderio di conoscenza e aveva rischiato il fallimento come Ulisse, quel naufragio che pure non doveva riguardare l’uomo se segue la canoscenza dato che non è un bruto

E poi arriva doc-ilmente (con un maestro, quindi) e pazien-temente (e quini con sofferenza e desiderio)

Già, perché si mangia e si desidera se manca qualcosa e allora la si cerca: Amore, infatti, è figlio di Povertà e di Bisogno, è il Mediatore

Se si prova amore e lo si cerca, si ammette che si è non autosufficienti, che si è umani, che si è im-per-fetti.

“Stay hungry, stay foolish”. “restate affamati, restate folli”, non basta; non smettete mai di essere affamati (ovvero non perdete la voglia di imparare, la curiosità, l’ambizione), non smettete mai di essere folli con un’accezione di ribelli (ovvero siate in grado di fare scelte azzardate, non convenzionali o che altri giudicano sbagliate o assurde). Quel folli forse è ingenui, sciocchi (non pensate, cioè, di avere imparato tutto quello che c’è da imparare, ma siate pronti a mettervi in gioco per imparare ancora): in fin dei conti già contenuto nel siate affamati.

È un monito a non perdere la curiosità, l’ambizione di cambiare il mondo con un pizzico di sana follia nel memorabile discorso tenuto nel 2005 all’Università di Stanford nella cerimonia di laurea degli studenti di quell’anno.

Da dove l’amore, quindi ? Da dove l’ordine ?

Il motore dell’Universo è l’Amore. La dimostrazione aristotelica dell’esistenza di Dio, sostanza soprasensibile e motore immobile, parte da un interrogativo: c’è qualcosa di incorruttibile ed eterno, di cui noi facciamo esperienza? Secondo Aristotele tutti esperimentiamo il divenire continuo ed ininterrotto del tempo.

A quali condizioni può sussistere un divenire eterno?

Deve esistere una causa altrettanto eterna che muove il divenire eterno, La causa che muove deve essere immobile, Il principio primo che muove deve essere in atto, La sostanza che muove tutto deve essere pura forma priva di materia, Il principio che muove tutto è un motore immobile. Muove come oggetto d’amore (κινεῖ ὡς ἐρώμενον). Dio non è un amante, ma un amato; non soggetto che ama, ma oggetto d’amore, Il motore primo non è perciò causa efficiente, ma finale.

E poi c’è la ruota. L’amore, quell’amore che è principio e anima dell’universo, quell’amore che muove il sole e le stelle, volgeva già il desiderio del poeta e il suo volere, lo volgeva, cioè accoglieva, nel suo ritmo, come ciascun punto di una ruota partecipa del movimento che ad essa è impresso. L’ultimo verso dice, dopo l’estrema visione, l’appartenenza dell’essere umano, di ogni essere, al ritmo dell’universo, all’unico movimento, un movimento che ha come sorgente e anima l’amore: l’armonia, la con-sonanza, la con-cordia (la psicologia contemporanea lo chiama flusso e peak experience).

L’ultimo verso rinvia certo al movimento che apre la prima cantica, “La gloria di colui che tutto move”, ed ha la stessa apertura verso il cielo notturno e stellato, che è detta nella chiusa delle precedenti cantiche. Ma qui sentiamo che la congiunzione di amore e stelle (“L’amor che move il sole e l’altre stelle”) è misura e respiro dell’universo e compendia tutta la tradizione che ha legato l’amore, la poesia d’amore, alla cosmologia, al cielo stellato, al desiderio d’infinito. Portare nella lingua il sentimento di questa visione di luce è impossibile, c’è solo il resto, il riflesso, la traccia, di questa visione.

Ma lo sguardo di Dante tenta l’azzardo: “Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna”. Riesce a vedere “la forma universal di questo nodo”, il nodo che unisce sostanze e accidenti, il nodo che lega ogni cosa del mondo: respiro dell’universo, del suo ordine. Ma si può rendere visibile, dicibile la divinità? Dante ne dà solo una similitudine: tre cerchi “di tre colori e d’una contenenza”.

E il poeta si ferma dinanzi a ogni altro azzardo della comprensione, e della visione, come il geomètra dinanzi al problema della quadratura del cerchio, si attesta sulla soglia delle approssimazioni per immagini, della lingua come luogo delle parvenze, delle tracce, dei riflessi d’una verità sottratta da sempre alla comprensione.  

Lì, in quell’istante di totale comunione, la mia capacità poetica ha perso ogni potere, non serviva più.

Perché «l’amor che move il sole e l’altre stelle», cioè Dio, fonte e origine del movimento di tutto l’universo così come del movimento di un capello del nostro capo, aveva afferrato «il mio disio e ’l velle», il mio desiderio e la mia volontà, e li «volgeva», li faceva ruotare, li muoveva, in totale armonia col resto dell’universo, proprio come i nove cieli («rota» è il cielo) si muovono incessantemente per vivere l’assoluta e totale comunione con l’Essere e col Mistero: ecco, io per un istante ho avuto la grazia di partecipare di questo movimento, cioè della vita di Dio.

In questi versi Dante ci testimonia che in Dio trova un’unità tutto quello che nell’universo è, invece, separato, incomprensibile, senza legame e senso, come i fogli sparpagliati di un quaderno.

Dante ricorda che era tutto preso dall’ardore di guardare, la sua vista era come catturata dalla bellezza del bene che aveva davanti a sé tanto che era impossibile rivolgersi altrove. Quanto più guardava tanto più il desiderio di contemplare cresceva. Il desiderio si compiva nel suo risorgere e accrescersi. Insaziabile, eternamente in crescendo. Così è l’amore.

Il mondo greco per dire amore aveva due parole principali, eros e philia: addensavano le molte forme dell’amore ma offrivano un registro semantico più ricco del nostro. Il Cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca agàpe, l’amore che sa amare chi non è desiderabile e il non-amico. Tre dimensioni dell’amore che, spesso, si trovano insieme nei rapporti veri e importanti.

La philia è sempre accompagnata dal desiderio-passione per l’amico ed è irrorata dall’agape che le consente di poter risorgere da fallimenti e fragilità. La philia poi lega l’eros e l’agape tra di loro e li affratella.

L’indagine amorosa è sempre stata una preoccupazione di carattere centrale nell’opera dantesca: si è dedicato all’esplorazione del concetto d’Amore lungo tutto l’arco della sua produzione.

Erano le idee-forza degli stilnovisti in una nobile concezione della vita, nella quale l’appello all’interiorità è determinante. Di qui nasce la suggestività della famosa professione dantesca: I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando (Pg XXIV 52-54); Amore è l’ansiosa aspirazione che conduce alla virtù e al trascendente, è una solenne e tragica passione che in poesia va espressa adeguatamente nell’eccellenza del volgare, nei modi della canzone e nelle forme dello stile più alto

Le basi di tale maturazione, oltre che filosofiche, sono pienamente empiriche. La Vita Nova è un racconto autobiografico che segue l’evoluzione stilistica e tematica della lirica amorosa dantesca, e della concezione stessa dell’Amore agli occhi dell’autore: la donna diventa una lente che proietta l’amore di Dante verso Dio.

Nella Commedia c’è il continuo movimento spirituale di un’anima alla ricerca del proprio posto all’interno del tutto da cui è stata generata. Nel Convivio, Dante afferma che “Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che “unimento” spirituale de l’anima e de la cosa amata” (Conv. III, 2, 3).

È questo il caso di Francesca da Rimini. Attraverso l’incontro con questo personaggio, costruito attorno ad una sottile analisi psicologica, Dante mostra per la prima volta al lettore qual è la reale condizione del dannato, ovvero lo strazio interiore di chi si trova all’Inferno.  Francesca conosce perfettamente il suo peccato, ma non è disposta ad ammetterlo. Tutto ciò che fa è giustificarsi, spostando l’attenzione da sé. L’agente delle frasi non è lei, ma un Amore dalla cui stretta non è riuscita a divincolarsi, ed a cui sembra non avere mai avuto la possibilità di sottrarsi. L’Amore, in questa anafora, è quasi una terza parte all’interno del rapporto tra i due giovani, un’entità semi-personificata in grado di influenzarne le decisioni e dotata di volontà propria. In queste parole appare chiaro che, a detta della donna, gli eventi erano fuori dal suo controllo, che la resa al desiderio sarebbe stata ineluttabile: E caddi come corpo morto cade. (Inf. vv. 139 – 142)

Dante costruisce l’intero impianto morale della sua opera sul concetto d’Amore: nell’episodio di Paolo e Francesca ci si trova al cospetto di un problema di organizzazione affettiva: i due giovani si trovano all’Inferno, ed è chiaro che il loro amore deviato è stato condannato soprattutto perché l’intensità e la natura di tale sentimento li ha allontanati da Dio – ma è altrettanto vero che rimane in loro un conflitto nella comprensione della condanna del sentimento amoroso diretto verso l’amante.

Il Canto XXXIII del Paradiso è la somma finale. Al fissare lo sguardo nella luce eterna, Dante vede come tutte le antinomie del creato confluiscano e vadano a coincidere, infine, nell’unità divina, verso quello che egli stesso definisce il “fine di tutt’i disii”

Sono gli ultimi passi di questo cammino a condurlo verso la comprensione del mondo, per sua natura indecifrabile a cause della sua contraddittorietà. L’ordine dell’universo è uno dei principali interrogativi trattati nella Commedia: Tutto è tenuto insieme dall’Amore di Dio, e quindi tutto è rivolto al bene, compreso l’uomo, la cui intrinseca natura divina viene confermata, pochi versi più avanti, nella visione stessa di Dio.

“Desiderio” come spiega Cesare nel De bello gallico viene dai desiderantes, soldati che, sopravvissuti al campo di battaglia, sotto un cielo stellato attendevano i loro compagni di battaglia, a rischio di morire. L’etimologia lessicale è ulteriormente suggestiva: de-sidera indica la manca di una stella, la mancanza di un buon auspicio. «Il desiderio non ha una stella che funzioni come bussola sicura che ci garantisca di non smarrirci».

Il desiderio, insomma, è un’esperienza di una mancanza, di una debolezza. Ma è anche – ed è qui il suo paradosso – un’esperienza di forza: la forza di una spinta che mi sovrasta e mi supera. Il desiderio è, allo stesso tempo, mio e mi porta al di là di me stesso. La stessa etimologia del termine – dal latino de-, e sidus, “stella”, letteralmente, “cessare di contemplare le stelle a scopo augurale”, nel senso di trarne gli auspici e quindi bramare – allude più alla distanza tra il soggetto e l’oggetto di desiderio, e al moto dell’animo che li lega, che alla natura dell’oggetto stesso.

La dimensione desiderante è nella mancanza che il bambino prova una volta separato dalla madre, e colloca tale dimensione tra il bisogno e la domanda. Mentre il bisogno mira a un oggetto specifico e si soddisfa con esso, e la domanda esige anche un riconoscimento di ‘direzione’, rivolgendosi sempre all’altro, il desiderio cerca di imporsi senza tenere conto dell’altro.

con-siderare as-siderare dis-astro

La forza del desiderio supera l’Io e offre la possibilità di sganciarsi dalle illusioni narcisistiche per andare verso un desiderio dell’Altro, trascendente.

La dimensione tra il desiderio che viene sempre dall’Altro e il desiderio d’Altro, del Nuovo, di Altra Cosa è dialettica e contraddittoria per alcuni versi. Il desiderio assomiglia ad un esilio permanente, ad un’erranza inquieta che non può mai trovare l’appagamento che pure ricerca affannosamente.

Solo se si assume la mancanza come condizione dell’esistenza, il desiderio può divenire un’apertura verso la vita, viceversa, il desiderio è godimento di morte.

Il godimento illimitato, privo di responsabilità, sregolato, compulsivo, soffoca la progettualità, la creatività, l’amore.

Il godimento che rende vivibile la vita, il godimento come effetto del potenziamento della vita non è mai il godimento del “tutto”, ma è il godimento che si può raggiungere solo a partire dall’impossibilità di avere tutto, godere di tutto, sapere tutto, essere tutto. L’esperienza del desiderio è sempre esperienza di un’alterità e, dunque, porta con sé sempre una quota di perdita dell’identità” e rappresenta per questo una grande possibilità di sganciarsi dalle illusioni narcisistiche dell’Io, dalla sofferenza generata dal suo attaccamento per andare verso un desiderio dell’Altro, un desiderio trascendente.

Mancanza è senso del limiti, è riconoscimento del confine e dell’appartenenza al finito, di chi desidera l’infinito

Il bisogno si crea perciò all’interno di un rapporto d’intersoggettività che propone una condizione di libertà nel cogliere le possibilità che le situazioni concrete mettono a disposizione per la sua soddisfazione.

E’ necessario, quindi, distinguere il desiderio dal bisogno, i bisogni che riguardano l’essere, quelli di autorealizzazione, distinguendoli da quelli indotti e falsi dell’avere, del possesso, dell’avidità, del potere, dell’affermazione i falsi bisogni indotti ? Il desiderio invidioso, che assume un carattere infantile, Il desiderio e l’angoscia per la sensazione di essere in balìa del desiderio dell’Altro, Il desiderio di niente, per cui quello che c’è non è mai sufficiente, Il desiderio di godere come diritto al dispendio, al superfluo, all’inutile, Il desiderio dell’Altrove che trasferisce l’illusione di salvezza sempre su un nuovo, il desiderio dell’Altro come apertura, come legame positivo, come domanda rivolta verso l’Altro.

E arriviamo al terzo e ultimo grado della visione dantesca finale, davanti al divino

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.

Dice Dante: quando ho fissato il cuore di Dio, l’intimità di Dio, la natura più profonda di Dio, laggiù, nella profondità del Mistero «mi parve pinta de la nostra effige», ho visto un volto d’uomo. Un volto d’uomo, capite? Il naso, le orecchie, la barba… Ho visto la nostra faccia, ho visto la faccia di un uomo come noi, uguale a noi.

Anzi, «per che ’l mio viso in lei tutto era messo»: letteralmente vuol dire che lì la mia capacità di vedere si è giocata interamente, in tutta la sua potenza, e solo allora ho visto un volto d’uomo nell’intimità di Dio.

Il mistero dell’Incarnazione in quel volto – che è il volto di Gesù – ha reso riconoscibile il volto di ciascuno

«Ma non eran da ciò le proprie penne». Le mie ali (metaforicamente, le capacità umane) non erano capaci di tanto, di volare a tale altezza. Qui sì, qui la ragione si deve proprio fermare. La ragione umana non è la ragione di Dio, ha un limite. Per cui esige il Mistero, lo afferma, e in questo senso l’affermazione del Mistero è quanto di più ragionevole la ragione possa dire; ma, proprio nel momento in cui è tesa nel suo massimo sforzo di comprensione, ha il coraggio di fermarsi e di dire che ci sono ragioni più grandi di sé.

E qui, sull’estremo lembo della ragione fiorisce la fede. «La mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne»: un’ultima illuminazione divina mi ha consentito di capire, ha risposto al desiderio («sua voglia») della mia ragione. Quella domanda che apparentemente non aveva soluzione invece in un istante di folgorazione, in un istante di grazia, ha avuto risposta.

E dopo ?

Dopo aver folgorato per un istante la mente del protagonista, annullando nei suoi confronti la distanza che esiste fra sé e tutte le creature, Dio riproietta Dante nel mondo, torna ad essere per lui quel bene supremo che, muovendo il creato dall’esterno come ultimo oggetto d’amore (secondo il principio per cui Dio “movet sicut amatum” l’universo), stimola il suo desiderio e la sua volontà secondo il ritmo naturalmente uniforme del movimento del cosmo.

Il moto uniforme (della ruota intorno al proprio asse) è figura della concordia della volontà di Dante con quella di Dio, ricercato e voluto in tutte le cose che naturalmente cadono nel campo della sua umana esperienza.

Del resto, già ci aveva avvertiti che è matto chi cerca di percorrere il pensiero logico delle tre Persone in una, ci si deve accontentare del quia, del “fatto-che-è”, non cercare il perché.

Il resto è un disio mai quetato, come una sete inestinguibile che ti divora dentro, un’arsura che più bevo più si incendia, sintomo di una peste, che sola la femminetta samaritana seppe saziare, con la Grazia.

Ora può iniziare la rinascita, la “vita nuova”, come una Fenice dalle proprie macerie, un cat-asterismo

Mi sono rinchiuso in una selva e sono dovuto andare per ogni aldilà a trovare come riu-scire a ri-vedere le stelle

E serve il movimento, perché per chiamare questo Motore fondamentale questo ardore che mette in movimento tutto non serve una parola: il divino è nome d’azione, è verbo (non perché verbum, ma perché si presenta dicendo di sé io sono quello che è, non un semplice sostantivo descrittivo o denominativo; è la spinta all’agire, all’azione, al fare e al cambiare e al produrre cambiamento: solo quelli lasciati indietro non cambiano più: sono anime o sono spettri, comunque non sono più.

[ci ha lavorato Roberto Scanzo]

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